In uno dei suoi lavori, dedicato allo studio dei gruppi creativi in Europa, De Masi (1995) si pose alcuni fondamentali quesiti: Quando è che un gruppo può dirsi creativo? Quali approcci disciplinari meglio contribuiscono a svelarci i segreti della creatività collettiva? Tutti i gruppi possono essere creativi o solo quelli in possesso di determinate caratteristiche? Se sì, quali? Che peso esercitano, sulle capacità creative di un gruppo, la motivazione, la professionalità, le nevrosi dei sui singoli membri? Quali sono le fonti di potere e gli stili di leadership che meglio si addicono a chi dirige un gruppo creativo? Come si formano e come si sciolgono i gruppi creativi? Di quali risorse hanno bisogno? Che influenza esercita su di loro il contesto in cui operano?

Due semplici considerazioni rispetto allo scenario attuale: si è contratta la vita media di qualsiasi prodotto o servizio (o addirittura delle aziende) e il bisogno di creatività e di innovazione per le organizzazioni è oggi la risorsa essenziale e centrale dalla quale dipendono i destini delle imprese; internet, prima attraverso il web ed ora attraverso le applicazioni che girano sui tablet e gli smart phone ha modificato il nostro modo di agire, di pensare, di vivere e ovviamente di lavorare, produrre e creare.

Se il fabbisogno di creatività e innovazione derivante dalla digitalizzazione è sempre più impellente per tutte le imprese, quali sono i fattori chiave organizzativi che permettono alle nuove imprese di rispondere a questa esigenza? Esiste una one best way organizzativa per le start up? Quali sono le lezioni più importanti che arrivano dalla letteratura disponibile sull’argomento? Quali sono le caratteristiche delle imprese che hanno fatto innovazione? Come hanno perpetuato nel tempo la loro capacità innovativa?
Come le nuove imprese ne possono trarre spunto?

Il presente post si pone l’obiettivo di provare a comprendere quali sono le possibili forme ed i fattori organizzativi che possono aiutare a passare, come direbbe Peter Thiel (2015), da zero ad uno cioè a creare qualcosa di nuovo. E’ un aspetto fondamentale che non riguarda solo le start up ma pervade tutte le imprese, sia quelle che attualmente fanno profitti, grazie alla loro capacità innovativa e creativa, che quelle che in questo momento arrancano perché si sono arroccate in difesa di una innovazione precedente ma ormai superata.

 

Il dilemma delle imprese innovative

Christensen (2001) ha da tempo indagato le ragioni in grado di spiegare perché aziende eccellenti, diventate leader grazie alla loro capacità innovativa, quando si trovano davanti a certi tipi di cambiamento, legati alla tecnologia e al mercato, falliscono. Le aziende vanno in crisi per tanti motivi, ma il filo rosso paradossale che tiene insieme gli insuccessi delle aziende diventate leader per la loro capacità innovativa, è il fatto che il loro declino nasca dalle decisioni prese nel momento del loro massimo successo.

Nei periodi di cambiamento, in tutti i settori dell’economia sono rintracciabili aziende di successo costrette improvvisamente a lottare per la sopravvivenza. La storia delle imprese è colma di questi avvenimenti, gli anni recenti, però hanno visto un’accelerazione in tal senso, sia in termini di numerosità che in termini di velocità con la quale questi fenomeni si manifestano.

Christensen(2001) risolve il dilemma dell’innovatore enunciando 7 lezioni sull’innovazione tecnologica: la prima conclude che i prodotti che oggi non sembrano utili ai clienti potranno diventarlo domani. Accettando questa possibilità non possiamo aspettarci che i clienti ci spingano verso innovazioni di cui non hanno bisogno. La seconda ci spiega che la gestione dell’innovazione rispecchia il processo di allocazione delle risorse: fintanto che non scompaiono o non si eliminano alternative che il management giudica più interessanti (magari perché profittevoli apparentemente nel breve periodo) sarà sempre difficile destinare risorse per lo sfruttamento di una tecnologia dirompente. Le terza ci indica che saper innovare, offrendo sempre una risposta migliore ad una domanda di servizio, attraverso le tecnologie, è utile in termini di sostegno dell’esistente: offrire una versione migliore di ciò che è richiesto. Tutto ciò è inutile per le tecnologie dirompenti. La quarta ci ricorda che molto spesso le aziende sono abili nel portare determinate tecnologie in determinati mercati, ma non in modi differenti da quelli a loro consueti. Molto spesso i nuovi mercati, aperti dalle nuove tecnologie dirompenti, richiedono abilità differenti nelle caratteristiche e nelle competenze delle aziende. La quinta indica delle modalità concrete attraverso le quali organizzare l’innovazione continua nella propria impresa: spesso non esistono possibilità di acquisire informazioni circa gli investimenti da fare in una nuova tecnologia, le informazioni devono essere trovate attraverso incursioni rapide, poco costose e flessibili nel mercato e nel prodotto. Il management che accetta di tentare, fallire e tentare ancora può farcela. Le ultime due lezioni sono destinate ai leader delle aziende innovatrici: non è saggio adottare una strategia unica per essere o sempre leader o sempre inseguitori, le aziende affermate possono strutturarsi ed organizzarsi per poter essere in grado di aprire nuovi mercati creati da nuove soluzioni e da nuove tecnologie. Le 7 regole offrono ai manager ed agli imprenditori una guida operativa per tentare di evitare di cadere nella trappola di chi è riuscito a diventare leader attraverso un’innovazione focalizzandosi successivamente solo nell’apportare migliorie graduali alle soluzioni di successo realizzate senza porsi l’obiettivo di poter replicare in un altro mercato o con un diverso prodotto attraverso un’altra innovazione di tecnologia.

Organizzare l’innovazione e la creatività

Quello che ci interessa comprendere ora è l’impatto che alcune modalità organizzative hanno sulla capacità e il livello di innovazione delle imprese. La letteratura sull’argomento evidenza che le scelte organizzative possono determinare lo spessore innovativo delle soluzioni che l’azienda è in grado di realizzare. Non emerge in concreto una modalità, un disegno organizzativo che rappresenta la soluzione da adottare per tutti. A partire dagli anni ‘70 del secolo passato, per spiegare il successo di talune organizzazioni rispetto ad altre, si andò affermando la cosiddetta “teoria della contingenza[1]” che definiva la struttura organizzativa più appropriata come quella che si adatta meglio ad un contesto operativo e competitivo specifico. Le ricerche sulla progettazione organizzativa spesso si sono integrate con quelle sull’innovazione tecnologica così come  sulle nuove imprese nate grazie alla diffusione di nuove tecnologie. (Francesco Ramella, Sociologia dell’innovazione economica, 2013).

Henry Mintzberg, studioso di management ed organizzazioni, amava definire adhocrazia la configurazione ad hoc per l’innovazione, quella che molti suoi colleghi chiamavano impresa ad alta tecnologia. Nel libro “Management mito e realtà” (Mintzberg, 1991)racconta di un articolo commissionato dalla Harvard Business Review sulle configurazioni aziendali e del fatto che prima di andare in stampa ricevette una richiesta di spiegazioni da parte della redazione circa il termine adhocrazia: “Significa forse carenza di struttura?”. In realtà, per molte persone, ancora oggi, l’adhocrazia è qualcosa di inconcepibile per una impresa: struttura organizzativa significa gerarchia di potere, controllo esercitato dall’alto, programmazione dettagliata, formalizzazione delle procedure etc. L’adhocrazia contraddice tutte queste presunte verità, è vista come “il caos” che deriva dall’assenza di “struttura”. Nel suo contesto naturale, l’adhocrazia non esclude la struttura ma considera che le sue caratteristiche principali siano la complessità e l’imprevedibilità.

Dall’organizzazione all’auto-organizzazione per l’innovazione e la creatività

Gareth Morgan (2002), individua, il cervello come metafora per le organizzazioni che vogliono uscire, superandole, dalle problematiche legate alla stasi della creatività, dalla logica delle gerarchie top-down, della specializzazione dei compiti e dalla specificazione dei piani operativi e strategici, lasciandoci, di fatto una mappa dettagliata per la progettazione delle imprese che vogliono operare con successo in uno scenario competitivo e soggetto a continua innovazione. La principale caratteristica del cervello risiede nelle sue capacità di auto-organizzazione. Sono quattro i principi attraverso i quali è possibile realizzare una struttura che funzioni efficacemente come un cervello; nello specifico ci si riferisce all’ ”interdipendenza” per favorire l’emergere di dinamiche auto-organizzative occorre progettare organizzazioni fortemente interconnesse; alla “ridondanza” per rendere l’organizzazione flessibile occorre sviluppare competenze polivalenti avviando processi atti alla de-specializzazione. Senza questa capacità il sistema organizzativo perde elasticità (tendendo alla stasi) e capacità auto-organizzativa e innovativa; alla “bassa specificità” che indica di definire solo ciò che si vuole evitare lasciando il campo più libero, creando uno spazio dinamico e mutevole per un ventaglio di azioni possibili all’interno dei limiti stabiliti. Infine viene suggerito di “concentrarsi sulle condizioni di partenza”: per favorire l’emergere di dinamiche di auto-organizzazione, la leadership deve occuparsi di creare le giuste condizioni di partenza, creando un contesto organizzativo per favorire l’emergere dei comportamenti coerenti con lo scopo dell’organizzazione.

Una volta riconosciuta l’ampia variabilità delle soluzioni organizzative, è possibile individuare i trend che caratterizzano le organizzazioni che si confrontano quotidianamente con l’innovazione? Se vi è accordo che l’aumento della competizione a livello internazionale legata alla globalizzazione dei mercati ed il rapido mutamento tecnologico espongono le imprese ad ambienti sempre più instabili, costringendole ad un continuo processo di apprendimento e ad una maggiore flessibilità organizzativa, quanto questi fattori si ripercuotono nei nuovi mercati delle imprese che operano nel digitale? Quali forme vengono assunte dai nuovi player etichettati disruptive quasi in omaggio alla distruzione creatrice descritta da Schumpeter?

Nella pratica le nuove imprese come si organizzano?

Lo sviluppo di un prodotto o di una soluzione è la fase centrale per la start up. Lo sviluppo di un prodotto o di una soluzione è però una attività continua ma non lineare per l’impresa digitale: l’impresa va alla ricerca di un modello di business che funzioni, sia replicabile e sia scalabile. Se il feedback dei clienti rileva che le ipotesi sono sbagliate totalmente o parzialmente, le rivede, le integra o crea nuove ipotesi. Una volta identificata la funzionalità di un modello, la start-up (o il team ad hoc dell’impresa già affermata) comincia a eseguirlo, costruendo un’organizzazione formale: ogni fase del processo di sviluppo ad opera dei clienti è iterativa  e prima di trovare l’approccio giusto una start-up fallirà parecchie volte. (Eric Ries, Steve Blank, 2013). Diversamente da quanto avviene nello sviluppo tradizionale dei prodotti o servizi, dove ogni fase dura un periodo lineare, questa modalità di sviluppo permette di realizzare tramite cicli brevi e ripetuti, la start-up (o la divisione di un’azienda affermata) realizza un servizio al livello minimo accettabile, raccoglie i feedback da un gruppo di clienti potenziali, e procede in modo ciclico velocemente verso lo step successivo, che consisterà nel nuovo servizio al livello minimo accettabile. (Eric Ries, Steve Blank, 2013) Questo modello è definito metodo Lean Start Up, ed è stato descritto nel dettaglio da Eric Ries (2012).

In termini schematici, quali sono le caratteristiche generali delle organizzazioni che lavorano in questo modo e quali le principali differenze con l’organizzazione guidata dalla ricerca dell’efficienza? (Eric Ries, Steve Blank, 2013).

Tab. 1

Alcune considerazioni di sintesi

La capacità innovativa correlata all’agilità interna e alla creatività diventano fattori critici per lo sviluppo della leadership e del valore, ciò implica velocità e originalità di pensiero e azione. L’organizzazione diviene innovativa quando riconosce velocemente i cambiamenti significativi nell’ambiente esterno e interno, riconfigurando (Richard Normann2002) (prima di essere riconfigurata) con immaginazione le proprie risorse. Come stimolo principale si può fare un buon uso delle informazioni derivanti dai propri network, ma la leva del successo sarà la conoscenza, la creatività, la velocità di esecuzione e la capacità di apprendimento (Roger Camrass, Martin Farncombe, 2002). Le forme organizzative propedeutiche alla creatività e all’innovazione sembrano non avere un perimetro definito: evolvono nel tempo in maniera circolare. L’innovazione diviene leggera, la conoscenza diventa il tratto comune che tiene insieme una molteplicità di interazioni e ne incrementa il valore. L’attributo più importante della conoscenza manageriale diventa quello culturale: l’impegno individuale a condividere le proprie conoscenze con la comunità. La spinta a un agire deve essere basata su fiducia e reciprocità stimolate da una cultura organizzativa in cui la conoscenza sia diffusa, non controllata. La fiducia, asset liquido, che l’organizzazione è capace di creare, sia verso l’interno che verso l’esterno, diventa il facilitatore e il moltiplicatore per la creazione di innovazione e valore. Il fattore manageriale chiave, come l’efficacia nella gestione della cassa, il controllo delle azioni, l’innovazione dei prodotti e dei processi, la loro qualità, è e continuerà ad essere importante. Ciascun fattore non sarà però sufficiente a differenziare l’insieme, in un mondo globale in cui i prodotti, i processi e i mercati tendono a diventare sempre più simili. La fiducia nel brand, la fiducia tra i soci e la fiducia interna diventeranno fondamentali per costruire con lungimiranza sane e vitali relazioni di business.

[1] Teoria comportamentale della struttura interna delle organizzazioni (contingency theory), sviluppatasi negli Stati Uniti negli anni 1960-70, secondo la quale non esiste un unico tipo di leadership o organizzazione più efficiente, ma piuttosto il modello da preferire dipende da una serie di fattori contingenti, sia interni sia esterni, alle organizzazioni stesse (Treccani.it)