In principio fu il telelavoro, modalità che implica una postazione di lavoro esterna fissa e stabilita, orari di lavoro e mansioni identiche al lavoro svolto in ufficio.

Il cosiddetto flexible working, consente invece di poter scegliere l’orario di lavoro, come prevede anche il lavoro elastico con orario flessibile in Italia, ma anche il luogo di lavoro.

Lo smart working, di cui si sente sempre più spesso parlare, dovrebbe aggiungere alla flessibilità di orario e luogo, una maggiore efficienza dell’organizzazione, una maggiore autonomia e responsabilizzazione del lavoratore rispetto al risultato del suo lavoro e in generale una collaborazione basata sulla fiducia, sulla delega anziché sul controllo e il micro-management. Fondamentali sono gli strumenti e le tecnologie per il lavoro a distanza che costituiscono la premessa tecnica per la creazione di una organizzazione che decida di adottare lo smart working.

L’agile working, più recente dello smart working, ne condivide molti aspetti ma si focalizza sulla metodologia per portare a termine una specifica attività nel modo più rapido, efficiente, conveniente e soddisfacente per tutte le parti coinvolte. La metodologia “agile” si riferisce a un insieme di metodi di sviluppo del software emersi a partire dai primi anni 2000, fra le esternalità generate dalla metodologia “agile” ci sono la formazione di team di sviluppo piccoli, poli-funzionali e auto-organizzati, lo sviluppo iterativo e incrementale, la pianificazione adattiva, e il coinvolgimento diretto e continuo del cliente nel processo di sviluppo.

L’agile working personalmente lo associo a quella che Henry Mintzberg, studioso di management ed organizzazioni, amava definire adhocrazia, la configurazione ad hoc per l’innovazione, quella che molti suoi colleghi chiamavano impresa ad alta tecnologia. In realtà, per molte persone, ancora oggi, l’adhocrazia è qualcosa di inconcepibile per una impresa: struttura organizzativa significa gerarchia di potere, controllo esercitato dall’alto, programmazione dettagliata, formalizzazione delle procedure etc. L’adhocrazia contraddice tutte queste presunte verità, è vista come “il caos” che deriva dall’assenza di “struttura”. Nel suo contesto naturale, l’adhocrazia non esclude la struttura ma considera che le sue caratteristiche principali siano la complessità e l’imprevedibilità.

Lo smart working continua quindi ad essere al centro dell’attenzione mediatica e oggetto di progettualità da parte di imprese e pubbliche amministrazioni. La applicazione di progetti di smart working viene associata al miglioramento della vita delle persone, a un efficientamento delle organizzazioni, alla sostenibilità della vita nelle città.

Nel 2019, secondo i risultati della ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano la percentuale di grandi imprese che ha avviato al suo interno progetti di smart working è stata pari al 58%, registrando una lieve crescita rispetto al 56% del 2018.

A questi numeri vanno aggiunte un 7% di imprese che ha attivato iniziative informali di smart working e un 5% che prevede di farlo nei prossimi dodici mesi. Del restante 30%, il 22% dichiara probabile l’introduzione futura e soltanto l’8% non sa se lo introdurrà o non manifesta alcun interesse.

Tra le PMI c’è un aumento della diffusione dello smart working: i progetti strutturati passano dall’8% dello scorso anno al 12% attuale, quelli informali dal 16% al 18%, ma aumenta in modo preoccupante anche la percentuale di imprese disinteressate al tema (dal 38% al 51%).

Secondo le organizzazioni, i principali benefici riscontrati dall’adozione dello smart working sono il miglioramento dell’equilibrio fra vita professionale e privata (46%) e la crescita della motivazione e del coinvolgimento dei dipendenti (35%). Ma la gestione degli smart worker presenta secondo i manager anche alcune criticità, in particolare le difficoltà nel gestire le urgenze (per il 34% dei responsabili), nell’utilizzare le tecnologie (32%) e nel pianificare le attività (26%), anche se il 46% dei manager dichiara di non aver riscontrato alcuna criticità.

Se si interrogano gli smart worker, invece, la prima difficoltà a emergere è la percezione di isolamento (35%), poi le distrazioni esterne (21%), i problemi di comunicazione e collaborazione virtuale (11%) e la barriera tecnologica (11%).

Parlandone di recente, con un illuminato manager di area HR di una grande banca che da tempo ha avviato forme di flexible working, mi sono ancora più convinto che lo smart working è un progetto complesso di change management in un cui gli aspetti di reskilling diventano fondamentali, soprattutto sul versante dei comportamenti, con particolare attenzione alla leadership.

A un livello più profondo realizzare un progetto di smart working significa lavorare sulle attitudini e i comportamenti delle persone promuovendo un pieno engagement per far sì che i lavoratori si trasformino in imprenditori con un’attitudine all’innovazione e alla creatività. Non è un fatto banale.

Parimenti significa lavorare sul ruolo del capo affinché sia reso abile ad aumentare l’efficacia del proprio gruppo di lavoro, creando concretamente una nuova way of working molto distante dai modelli manageriali strutturati e probabilmente più vicini al modello adhocratico descritto molti anni fa da Henry Mintzberg.